È un brano del libro: “Quella notte al Giglio” di Alfio Giuffrida
Forse
anche Kim pregava, a modo suo, per se stesso o per qualcuno che gli era caro.
Nessuno lo saprà mai! Park e Bae sentivano i suoi gemiti di dolore trasformarsi
a poco a poco in rantoli cupi e dolorosi, mentre rivoli di sangue uscivano
dalla sua bocca sempre più copiosi. La sua dignità di fronte alla morte era
solenne, come lo era quella di tutte le persone che, in quei momenti, avevano
subito lo stesso, amaro destino.
Poi
venne la sera e dall’oblò, puntato verso il cielo, sparì l’abbagliante luce del
giorno e apparvero le stelle. Quei magici puntini bianchi e scintillanti sui
quali i due ragazzi si erano tante volte giurato il loro eterno amore. E adesso
non restava che giurarselo ancora, unica consolazione di poter morire insieme
in quel grande mare fatto solo di sogni e di dolore.
Ma
fu Kim a dare per primo il doloroso addio. Mentre Bae lo teneva con affetto, ad
un tratto emise un rantolo più forte degli altri e fissò negli occhi la sua
padroncina, mentre un gelido tremore scosse il suo corpo in modo frenetico. Poi
reclinò la testa e il suo volto rimase sereno, ma lui non respirò più!
Lei
lo alzò al cielo come per restituirlo al Creatore, restando muta e con la bocca
aperta. Mentre Park la sorreggeva per confortarla e per non farla cadere. Si
spostò un po’ per deporlo su un cuscino, come se fosse quello il suo letto di
morte, lo poggiò spingendo un po’ con le mani come per fare una fossetta nella
quale il suo amorino potesse stare più comodo e dormire, per sempre, il sonno
eterno della sua esistenza.
Lo
sistemò e lo accarezzò con affetto, come una mamma che mette a letto il proprio
bambino. Ma il cuore di lei batteva appena, non ce la faceva più a sopportare
quell’immane dolore. Bae pianse lacrime di disperazione, che caddero addosso a
quell’essere indifeso e benedissero la sua anima. «E’ morto per il mio
capriccio di portarlo a bordo», disse lei sconsolata.
Park
cercò di consolarla: «Almeno lui è morto tra le tue braccia e questo,
sicuramente, gli è stato di grande conforto in questi momenti di disperazione,
nei quali ha visto che, per lui, ogni speranza in questa vita terrena era
finita. Non gli restava che sperare in una vita futura. … E noi? Cosa sarà di
noi? Forse faremo la sua stessa fine e potremo dirci fortunati di affrontarla
assieme, con il nostro conforto reciproco. Mentre altri hanno affrontato il
terribile momento del loro trapasso da soli, senza il conforto di una persona
cara, trafitti dalle gelide acque del mare che procurano una atroce agonia.»
L’uomo
le fece una carezza, come per prepararla ai momenti difficili che li attendevano,
poi si spostò verso l’oblo è guardò il cielo. Forse pensò alla madre lontana,
oppure volle solamente restare solo con se stesso, per pregare.
Bae
cercò una copertina per coprire il suo Kim, rovistò tra gli indumenti che
uscivano dalla sua valigia, aperta solo per qualche istante, per estrarne il
vestito che lei aveva indossato con tanto entusiasmo. In quel momento, fra gli
oggetti riversati addosso alla parete, scorse il pugnale di Park, quello da cui
non si separava mai. Quello che gli era stato donato dal suo maestro di Kung
Fu, l’arte marziale di cui era appassionato sin da piccolo e della quale, da
grande, era diventato maestro.
Pensò
all’affetto che il suo uomo aveva per quell’arma, alla venerazione che lo
legava al suo maestro, che quell’arma l’aveva costruita personalmente, usando
solo l’acciaio per la lama ed un corno di bue per l’impugnatura. Era uno dei
primi oggetti che il suo maestro cinese aveva forgiato con la tradizionale
procedura del damasco saldato.
Nelle
riunioni tra amici, il vecchio raccontava sempre come quella lama fosse stata resa
morbida e docile, riscaldandola nel crogiolo e, in quello stato, appiattita e
modellata a colpi di martello. Ripiegata su se stessa e picchiata con forza tra
l’incudine ed il maglio, e poi di nuovo riscaldata e colpita con destrezza,
svariate volte, finché anche la forte tempra dell’acciaio non si fosse piegata
alla forza del maestro.
Come
avevano dovuto sempre piegarsi davanti a lui i suoi avversari più tenaci, negli
infiniti combattimenti che egli aveva sostenuto, nei quali era risultato sempre
vincitore. Era quella la tecnica tradizionale, che dava all’acciaio una
affilatura elastica e resistente, che durava nel tempo, come i segreti del Kung
Fu, che il gran maestro infondeva nei suoi più appassionati discepoli, più nello
spirito che nel loro corpo, temprando in loro quel carisma che lui aveva innato
e che, ai loro occhi, lo rendeva quasi divino. Mentre loro si astraevano dalla
realtà ed ottenevano quella concentrazione che li rendeva invincibili.
Eppure
il suo maestro non si sentiva mai superiore agli altri. Quando insegnava ai
suoi attenti seguaci le mosse più complesse, accompagnando le parole con delle
dimostrazioni pratiche di agilità e destrezza, non dimostrava affatto i suoi
sessantadue anni. La velocità delle sue braccia era tale, che anche
l’osservatore più attento non avrebbe scoperto la tecnica che usava, se non fosse
stato lui stesso a spiegarla.
Quando
aveva insegnato a Park, uno dei “tao” più complessi, riproducendo il movimento
come al rallentatore, per farlo capire meglio, sotto gli occhi increduli del
suo discepolo, in lui aveva visto una luce: quello stesso vigore che aveva
scoperto in se quando aveva solo dodici anni e si era proteso con tutta la sua
anima, verso quella faticosa disciplina che era diventata lo scopo della sua
vita. E quando si era reso conto che il suo pupillo aveva capito appieno la sua
tecnica, continuò a stupirlo con le sue parole: «Non seguire le impronte del
tuo Maestro, ma cerca di ottenere ciò che Lui stava cercando.»
Anche
il manico di quel pugnale era un capolavoro di intaglio: riproduceva un drago,
scolpito con la punta di una pietra preziosa, sottilissima e durissima, su un
corno di bue. Un’opera d’arte legata in modo indissolubile ad un gioiello della
tecnica.
Il
maestro teneva quel pugnale custodito tra i suoi cimeli più cari. Ma quando
Park superò l’esame del suo secondo “dan”, lo regalò a lui e, da allora era
diventato il suo gioiello più prezioso. «Custodiscilo con cura!» gli aveva raccomandato
il maestro con voce solenne, «Forse un giorno, questo pugnale potrà salvarti la
vita!» E Park era stato fedele a quella profezia, anche se, in cuor suo sperava
sempre di non essere mai costretto ad usare quel pugnale contro un’altra
persona, anche se quella potesse essere l’unica mossa per salvare la propria
vita.
A
quella vista gli occhi di Bae brillarono di una luce oscura. Guardò il marito e
vide che non la stava osservando, aveva gli occhi rivolti al cielo e forse
stava pregando. Lei estrasse il pugnale dal fodero e lo incastrò con forza tra
gli oggetti riversati nell’angolo della cabina, con la lama rivolta verso
l’alto. Si alzò prima sulle ginocchia e poi si mise in piedi, dritta davanti al
pugnale, che aveva la punta rivolta verso il suo petto. Lo fissò con il
desiderio di averlo dentro di se, di poter mettere fine in quel modo ai troppi
errori che aveva commesso.
Si
lanciò su di esso senza emettere alcun grido. Ma la mano di Park fu più veloce
di un serpente quando assale la sua preda. Ebbe appena il tempo di accorgersi
del gesto che Bae stava compiendo, ma la sua mente era vigile e il suo braccio
veloce, abituato alle mosse fulminee, come solo un maestro di Kung Fu può
esserlo. E lui, in quell’arte, era maestro!
La
sua mano si interpose tra il petto di lei e la punta del pugnale, riuscendo a
spingerla lateralmente, mentre già il seno si appoggiava sulla lama affilata. Fu
una mossa da esperto, studiata tante volte a tavolino …..